giovedì 18 settembre 2014

Facciamo i conti



Mt 18, 21-35

Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».

Nel brano precedente avevamo visto che Gesù, sul come reagire quando ci viene fatto del male, propone un’azione diretta nei confronti della persona che ci colpisce: ‘va’ e ammoniscilo tra te e lui solo’. Solo se questo non è sufficiente viene chiamata in causa la società e le sue norme.
Commentando, di sfuggita avevo menzionato un altro atteggiamento, di cui Gesù in quel caso non parlava (ma lo fa talmente spesso in molte altre occasioni che non possiamo dimenticarlo), facendo un paragone con il perdono:

Il comando di Gesù di reagire al male affrontando direttamente e personalmente chi lo ha commesso, a differenza del perdono che è una decisione unilaterale, chiama in causa il confronto diretto’.

Pietro tira qui in ballo proprio la questione del perdono. Evidentemente Pietro ha sentito così tante volte Gesù parlarne, che automaticamente lo assume come atteggiamento da mettere in conto nei rapporti interpersonali, anche quando Gesù non ne parla esplicitamente. Pietro intende come perdono anche l’atteggiamento del non rispondere al male con il male. Ma pone subito la questione dei limiti. Va bene perdonare, non vendicarsi, non moltiplicare il male, non cercare complici per reagire, non diffonderlo, ma a tutto c’è un limite: quante volte devo perdonare? Quante volte devo porgere l’altra guancia? Quante volte devo dimenticare? Sette volte è sufficiente?

E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

La risposta di Gesù è spiazzante. Non aumenta solo il limite massimo, ma lo porta a una quota talmente alta che equivale a togliere ogni limite. Chissà che faccia avrà fatto Pietro! Gesù allora spiega il motivo per cui chiede una cosa tanto strabiliante. E lo fa anche stavolta con un esempio.

Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. 


Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

Per riuscire a capire la portata di ciò che dice Gesù occorre capire il valore delle cifre di cui si parla:

A lui [il servo spietato della parabola] erano stati condonati diecimila talenti (myria tàlanta). Il talento, come la mina, è solo una "moneta di conto", cioè un'unità monetaria che non esiste in realtà ma alla quale si fa riferimento per calcolare somme di grande quantità ... Il talento attico, di cui parlano i Vangeli, si divideva in sessanta mine, ognuna delle quali valeva cento denari. I diecimila talenti indicavano quindi una somma esorbitante, impagabile, di sessanta milioni di denari: si è calcolato che in quindici anni un lavoratore poteva guadagnare un talento in tutto... Il compagno del servo spietato deve a quest'ultimo solo cento denari (hèkaton denària), che tuttavia quegli non vuole condonare, pur essendo stato graziato di una somma seicentomila volte superiore: un paragone improponibile e, nella contrapposizione a effetto, una esosità tremenda da parte del servo spietato … Il compagno del servo spietato deve a quest’ultimo solo cento denari (hèkaton denària) … un denaro, come conferma la parabola degli invitati a lavorare nella vigna, era il salario di una giornata di lavoro di un bracciante agricolo e, con buona probabilità, di un qualsiasi operaio specializzato in una determinata attività.

Cesare Pasini in le monete di Dio
 

Gesù fa notare la sproporzione enorme tra il debito dovuto al padrone dal primo servo e quello che l’altro servo deve a lui. L’accento però non è posto solo su questa sproporzione, ma anche sull’atteggiamento del padrone, che condona tutto al servo che non ha di che pagarlo.
Perché Gesù usa questo esempio? Facendo questo paragone ed evidenziando l’atteggiamento del padrone, Gesù vuole aprire un nuovo orizzonte. Vuole evidenziare la nostra situazione, che deve tenere conto non solo degli altri, ma anche di Dio. Pietro gli aveva chiesto: Quante volte io devo perdonare? E Gesù gli risponde così: La risposta la troverai se tu ti immedesimi in quel servo. ‘Tu sei quell’uomo!’ si era sentito dire il re Davide (che aveva fatto uccidere Uria per poter avere per sé la moglie di lui, Betsabea) dal profeta Natan:

Il Signore mandò il profeta Natan a Davide e Natan andò da lui e gli disse: “Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l'altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata; essa gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia. Un ospite di passaggio arrivò dall'uomo ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso, per preparare una vivanda al viaggiatore che era capitato da lui portò via la pecora di quell'uomo povero e ne preparò una vivanda per l'ospite venuto da lui”. Allora l'ira di Davide si scatenò contro quell'uomo e disse a Natan: “Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà”. Allora Natan disse a Davide: “Tu sei quell'uomo!”. II Sam 12, 1-7

Nella parabola di Gesù il padrone chiamato in causa è Dio, e noi siamo i servi. Ciascuno di noi deve quindi gestire sia il rapporto con Dio che con gli altri servi. Nell’immagine presentata da Gesù non ci sono solo due uomini che devono gestire i loro legami e i loro interessi reciproci. C’è un terzo personaggio, del quale questi due personaggi devono considerare il ruolo e l’influenza. Questo terzo protagonista non è allo stesso piano degli altri due. E’ il padrone. E loro sono reciprocamente alla pari ma sono i suoi servi.
Il linguaggio che usa Gesù non crea nessun problema ai suoi uditori, per i quali un rapporto padrone-servo era cosa normale. Ma per noi oggi un simile linguaggio è ritenuto inaccettabile. Almeno per noi occidentali (per il resto dell’umanità non so se sia proprio così). Per il cristiano però questa situazione è il modo in cui è invitato a considerare il proprio posto nel mondo e nella vita: non può ignorare Dio e non può soprattutto ignorare il suo esserne padrone e signore.
Da qui deriva, credo, il significato di questa parabola di Gesù: nel valutare i propri rapporti con gli altri non possiamo prescindere dal nostro stato fondamentale di ‘dipendenti’ di Dio, dal quale abbiamo ricevuto in dono tutto ciò che abbiamo. La vita, il tempo, le risorse, l’intelligenza, le capacità, la natura, l’universo in cui viviamo, sono doni suoi, e di questi noi siamo a lui debitori. Un debito immenso. Diecimila talenti.
E se Dio volesse fare i conti con noi, come fa il re della parabola? Se ci chiedesse: Ridammi indietro tutto quello che ti ho prestato? Ci troveremmo nelle stesse condizioni del primo servo, che non può pagare.
Ecco il cuore del discorso di Gesù. Tu sei quell’uomo. E a te il padrone condona il debito, tutto. Non ti chiede di restituirglielo. Ma allora come fai a pretendere a tua volta da altri, qualunque sia l’entità del debito che hanno verso di te?



Il perdono allora diventa non più solo una norma morale, un comando di Dio da mettere in pratica di malavoglia e cercando continuamente scuse e motivi per poterlo evitare, ma l’orizzonte stesso della nostra vita, un atteggiamento inevitabile, il nostro modo stesso di essere. Io sono debitore a Dio di tutto, e lui tutto mi condona (anche i peccati, tra l’altro) spinto dalla sua compassione, dal suo con-patire, dal suo mettersi al nostro posto.

Cristo Gesù, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Fil 2, 6-8

Allora dovrebbe diventare automatico, avendo sperimentato questo su di sé, assumerlo come atteggiamento verso gli altri. Ecco perché il padrone si arrabbia tanto. Non perché il servo fa fatica a mettere in pratica verso l’altro quello che il padrone ha fatto a lui, ma perché non si è reso conto di quello che il padrone ha fatto.
Ecco perché c’è una differenza abissale tra il dire ‘non riesco a perdonare’ e il dire ‘non voglio perdonare’. Il non riuscirci fa parte dei nostri limiti, ma non intacca l’atteggiamento di fondo. Il non volerlo fare distrugge la propria identità profonda di cristiani, perché implica il non riconoscere ciò che siamo davanti a Dio e agli altri.

Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.


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