venerdì 31 gennaio 2014

sulla via del mare


Mt 4, 12-23

Quando Gesù seppe che Giovanni Battista era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali

Gesù va ad abitare in Galilea, a Cafarnao, villaggio molto interessante, anche per la storia delle scoperte archeologiche che vi sono state effettuate. Praticamente sconosciuta fino al 1863, vi furono effettuati scavi nel 1866 (riguardanti la sinagoga), e negli anni 1921-25 (riguardanti la chiesa bizantina) ma solo dal 1968 si è intrapresa una campagna di scavi che ha portato alla scoperta del villaggio dell’epoca di Gesù e della casa di Pietro. 


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perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».

E' molto significativa la scelta fatta da Gesù: la Galilea era, tra le tre regioni in cui era divisa la Palestina, quella più a nord, e soprattutto quella più ‘meticcia’, abitata non solo da ebrei osservanti, ma anche da samaritani e pagani. Era quindi una regione cosmopolita, in cui convivevano, oltre a popolazioni diverse, diverse esperienze religiose. Gesù, scegliendo di abitare in Galilea e iniziando lì la sua vita pubblica, si allontana l’ambiente rassicurante della lunghissima tradizione di Israele e si tuffa nel mondo caotico, confuso e ricco di proposte e contraddizioni della regione galilaica. Un mondo e una regione guardata con diffidenza dalla tradizione osservante israelitica. Un popolo che abita ‘nelle tenebre’.
Gesù sceglie la 'via del mare': Cafarnao è sulle rive del mare di Tiberiade (in realtà un lago), e molti degli eventi successivi della vita pubblica di Gesù si svolgeranno sul mare. Ma il mare nella cultura e storia biblica è il simbolo della vita, con le sue risorse e con i suoi pericoli (Cafarnao è un paese di pescatori, ma anche il Mediterraneo è fondamentale nella vita della Palestina. Non dimentichiamo l'importanza del mar Rosso nella storia ebraica). Cafarnao inoltre 'si trovava presso una delle principali arterie che collegavano la Galilea con Damasco. Questo è provato dalla scoperta di una pietra miliare con un'iscrizione latina dell'imperatore Adriano'. fonte
Lì, in Galilea, Gesù inizia il suo ministero, la sua vita pubblica. Lo fa annunciando ‘il regno dei cieli’, ma aggiungendo che questo regno dei cieli ‘è vicino’. Cosa questo voglia dire è ancora misterioso, e si definirà negli eventi seguenti.

Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». 


Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

Gesù inizia da solo, ma presto comincia a chiamare dei ‘collaboratori’, dei discepoli, degli allievi, come faceva ogni rabbì del tempo. Con due differenze notevoli: la prima è che erano i discepoli a scegliere il maestro. Nel caso di Gesù i ruoli si invertono, è lui che sceglie. La seconda differenza sta nel fatto che li chiama non solo perché lo seguano, ma da subito li destina ad avere un futuro ruolo attivo: ‘vi farò pescatori di uomini’. Espressione oscura anche questa, i cui contorni e significati si chiariranno solo molto più tardi.

venerdì 24 gennaio 2014

Francesco di Sales

Nella creazione Dio comandò alle piante di produrre i loro frutti, ognuna «secondo la propria specie» (Gn 1, 11). Lo stesso comando rivolge ai cristiani, che sono le piante vive della sua Chiesa, perché producano frutti di devozione, ognuno secondo il suo stato e la sua condizione.
La devozione deve essere praticata in modo diverso dal gentiluomo, dall'artigiano, dal domestico dal principe, dalla vedova, dalla donna non sposata e da quella coniugata. Ciò non basta; bisogna anche accordare la pratica della devozione alle forze, agli impegni e ai doveri di ogni persona.
Dimmi, Filotea, sarebbe conveniente se il vescovo volesse vivere in una solitudine simile a quella dei certosini? E se le donne sposate non volessero possedere nulla come i cappuccini? Se l'artigiano passasse tutto il giorno in chiesa come il religioso e il religioso si esponesse a qualsiasi incontro per servire il prossimo come è dovere del vescovo? Questa devozione non sarebbe ridicola, disordinata e inammissibile? Questo errore si verifica tuttavia molto spesso.
No, Filotea, la devozione non distrugge nulla quando è sincera, ma anzi perfeziona tutto e, quando contrasta con gli impegni di qualcuno, è senza dubbio falsa.


L'ape trae il miele dai fiori senza sciuparli, lasciandoli intatti e freschi come li ha trovati. La vera devozione fa ancora meglio, perché non solo non reca pregiudizio ad alcun tipo di vocazione o di occupazione, ma al contrario vi aggiunge bellezza e prestigio. Tutte le pietre preziose, gettate nel miele, diventano più splendenti, ognuna secondo il proprio colore, così ogni persona si perfeziona nella sua vocazione, se l'unisce alla devozione. La cura della famiglia è resa più leggera, l'amore fra marito e moglie più sincero, il servizio del principe più fedele, e tutte le altre occupazioni più soavi e amabili.
È un errore, anzi un'eresia, voler escludere l'esercizio della devozione dall'ambiente militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalle case dei coniugati. È vero, Filotea, che la devozione puramente contemplativa, monastica e religiosa può essere vissuta solo in questi stati, ma oltre a questi tre tipi di devozione, ve ne sono molti altri capaci di rendere perfetti coloro che vivono in condizioni secolari. Perciò dovunque ci troviamo, possiamo e dobbiamo aspirare alla vita perfetta.

 san Francesco di Sales, Filotea (Parte 1, Cap. 3)

domenica 19 gennaio 2014

parlare, fare, avere, essere



I Cor 13, 1-13

Se parlassi

Quest’anno ho proposto per le mie parrocchie il tema della Carità. In questa domenica, nelle messe che ho celebrato, abbiamo utilizzato come seconda lettura della messa questo bellissimo inno di san Paolo. Rileggendolo e meditandolo ho notato due cose in particolare, riferite alla Carità: la prima è che per tre volte parla dell’ ‘avere’ la Carità. Curioso. La seconda è che le caratteristiche della carità hanno un risvolto riferito all’ ‘essere’ di cui dirò tra poco.
A questi due verbi, ‘avere’ e ‘essere’, ne ho aggiunti io altri due a mo’ di introduzione, innanzitutto partendo dal termine più consueto usato in abbinamento alla parola carità: ‘fare’: fare la carità. Ho poi aggiunto anche il verbo ‘parlare’, come primo gradino di una scala che porti verso l’alto.

Parlare.

Ho aggiunto ‘parlare’, come scalino più basso, perché di qualunque argomento è la prima cosa che di solito facciamo. Ne parliamo. A volte ci fermiamo solo lì e non andiamo oltre. In merito alla Carità verrebbe subito, credo, la tentazione di passare ai fatti, al ‘fare la carità’ appunto, ma anche se quello deve essere certamente l’obiettivo da raggiungere, è importante fermarsi anche a parlarne, a ragionarci su. Perché se non so cosa fare, come faccio poi a farlo?
Allora è importante anche parlare della Carità, per capire qual è il suo significato, il suo senso, le modalità della sua realizzazione.

Fare.

Ma poi bisogna passare all’azione. Carità senza azione non ha senso. Bisogna farla, la Carità.
Ma cosa si intende per carità? La Treccani riporta tra le altre queste definizioni:

amore attivo per il prossimo che si esplica soprattutto attraverso le opere di misericordia: avere spirito di c.; uomo acceso di c., mosso da c., pieno di c.
Sentimento umano che dispone a soccorrere chi ha bisogno del nostro aiuto materiale: avere, mostrare c. verso i poveri; istituti, ospizî di c., che hanno lo scopo di soccorrere gli indigenti..


‘Amore attivo’, ‘sentimento umano’, ‘soccorrere chi ha bisogno del nostro aiuto materiale’. Ma anche chi non è cristiano, anche chi non è credente può fare queste cose. In che cosa si distingue la carità cristiana dalla carità umana? (se una distinzione c’è).

Avere.

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

Ecco che entra in campo Paolo. Per tre volte parla di ‘avere’ la Carità. Per Paolo, senza questo possesso qualunque azione, qualunque impresa, qualunque opera umana, anche la più altruistica, anche la più strabiliante, rischiano di essere nulla.
Bisogna avere la Carità. Ma come si fa? Dove la si va a prendere? Dove la posso trovare?
Per capirlo bisogna salire l’ultimo gradino.

Essere.

La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

Paolo elenca cosa è Carità. Ma ancora potrebbero essere un elenco di caratteristiche della persona buona, non necessariamente della persona cristiana. Però le ultime quattro aprono un nuovo orizzonte. Se già è difficile che una persona possa avere tutte quelle precedenti contemporaneamente, queste ultime, con il ‘tutto’ ripetuto per quattro volte, fanno uscire dal possibile e dall’umano. L’uomo può scusare qualcosa, ma non tutto, credere qualcosa, ma non tutto, sperare qualcosa, ma non tutto, sopportare qualcosa, ma non tutto. Chi è l’unico che può fare e ha fatto questo? Cristo. Ecco la sorpresa. Ecco dove vuole portarci Paolo. La Carità è Cristo. L’elenco di Paolo non è altro che la descrizione di Cristo, il suo identikit.


Certamente chiunque può tentare di imitarlo facendo qualcosa di quello che Cristo ha fatto. Anche un non cristiano, anche un non credente. Ma il cristiano può fare di più. Può avere Cristo, che a sua volta è la Carità.
Se Cristo è la Carità fatta carne, il cristiano lo possiede, lo ha in sé. Ecco allora la risposta alle domande fatte poco fa: come si fa ad avere la Carità? Ecco che l’ho trovata. E attraverso i Sacramenti, fatti apposta per comunicare la presenza di Cristo, io possiedo Cristo, che a sua volta è la Carità. Allora il mio fare e il mio parlare diventano non solo più azioni e parole umane, ma portano Cristo in sé.

Ecco perché…

…la carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

È l’unica delle tre virtù cardinali che supererà la morte e continuerà anche dopo. Della fede non ci sarà più bisogno, vedremo ‘faccia a faccia’. La speranza diventerà conoscenza perfetta. Ma la Carità continuerà a essere esercitata e realizzata. Finalmente in modo totale e completo. Anche perché Cristo è risorto per sempre, e lui sarà tutto in tutti.
Ripropongo come conclusione un racconto che ho già inserito da qualche parte, perchè mi sembra proprio bello:

Dopo una lunga e vita, un saggio giunse nell'aldilà e fu destinato al paradiso. Era un tipo pieno di curiosità e chiese di poter dare prima un'occhiata anche all'inferno. Un angelo lo accontentò. Si trovò in un vastissimo salone che aveva al centro una tavola imbandita con piatti colmi di pietanze succulente e di golosità inimmaginabili. Ma i commensali, che sedevano tutt'intorno, erano smunti, pallidi, lividi e scheletriti da far pietà. "Com'è possibile?" chiese l'uomo alla sua guida "Con tutto quel ben di Dio davanti!". "Ci sono bacchette per mangiare, rispose l’angelo, ma sono lunghe un metro e devono essere rigorosamente impugnate all'estremità. Solo così possono portarsi il cibo alla bocca". Il saggio rabbrividì. Era terribile la punizione di quei poveretti che, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a mettersi neppure una briciola sotto i denti. Non volle vedere altro e chiese di andare subito in paradiso. Qui lo attendeva una sorpresa. Il paradiso era un salone identico all’inferno. Dentro l’immenso salone c’era un’infinita tavolata di gente seduta davanti ad un’identica sfilata di piatti deliziosi. Non solo: tutti i commensali erano muniti delle stesse bacchette lunghe un metro, da impugnare all’estremità per portarsi il cibo alla bocca. C’era una sola differenza: qui la gente intorno al tavolo era allegra, ben pasciuta, sprizzante di gioia. “Ma com’è possibile?”, chiese stupito. L’angelo sorrise: “All’inferno ognuno si affanna ad afferrare il cibo e portarlo alla propria bocca, perché così si sono sempre comportati nella loro vita. Qui al contrario, ciascuno prende il cibo con i bastoncini e poi si preoccupa di imboccare il proprio vicino”.
Fiaba cinese


venerdì 17 gennaio 2014

Antonio

Dopo la morte dei genitori, lasciato solo con la sorella ancor molto piccola, Antonio, all'età di diciotto o vent'anni, si prese cura della casa e della sorella. Non erano ancora trascorsi sei mesi dalla morte dei genitori, quando un giorno, mentre si recava, com'era sua abitudine, alla celebrazione eucaristica, andava riflettendo sulla ragione che aveva indotto gli apostoli a seguire il Salvatore, dopo aver abbandonato ogni cosa. Richiamava alla mente quegli uomini, di cui si parla negli Atti degli Apostoli che, venduti i loro beni, ne portarono il ricavato ai piedi degli apostoli, perché venissero distribuiti ai poveri. Pensava inoltre quali e quanti erano i beni che essi speravano di conseguire in cielo.
Meditando su queste cose entrò in chiesa, proprio mentre si leggeva il vangelo e sentì che il Signore aveva detto a quel ricco: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi e avrai un tesoro nei cieli» (Mt 19, 21).

sant'Antonio . chiesa di san Magno (CN)

Allora Antonio, come se il racconto della vita dei santi gli fosse stato presentato dalla Provvidenza e quelle parole fossero state lette proprio per lui, uscì subito dalla chiesa, diede in dono agli abitanti del paese le proprietà che aveva ereditato dalla sua famiglia — possedeva infatti trecento campi molto fertili e ameni — perché non fossero motivo di affanno per sé e per la sorella. Vendette anche tutti i beni mobili e distribuì ai poveri la forte somma di denaro ricavata, riservandone solo una piccola parte per la sorella.
Partecipando un'altra volta all'assemblea liturgica, sentì le parole che il Signore dice nel vangelo: «Non vi angustiate per il domani» (Mt 6, 34). Non potendo resistere più a lungo, uscì di nuovo e donò anche ciò che gli era ancora rimasto. Affidò la sorella alle vergini consacrate a Dio e poi egli stesso si dedicò nei pressi della sua casa alla vita ascetica, e cominciò a condurre con fortezza una vita aspra, senza nulla concedere a se stesso.
Egli lavorava con le proprie mani: infatti aveva sentito proclamare: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3, 10). Con una parte del denaro guadagnato comperava il pane per sé, mentre il resto lo donava ai poveri.
Trascorreva molto tempo in preghiera, poiché aveva imparato che bisognava ritirarsi e pregare continuamente (cfr. 1 Ts 5, 17). Era così attento alla lettura, che non gli sfuggiva nulla di quanto era scritto, ma conservava nell'animo ogni cosa al punto che la memoria finì per sostituire i libri. Tutti gli abitanti del paese e gli uomini giusti, della cui bontà si valeva, scorgendo un tale uomo lo chiamavano amico di Dio e alcuni lo amavano come un figlio, altri come un fratello.

Atanasio, «Vita di sant'Antonio»

giovedì 2 gennaio 2014

migranti



Mt 2, 13-23

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre

Prima di dire qualcosa ancora sulla figura di Giuseppe, richiamo alla mente un altro testo, il cuore del vangelo che abbiamo ascoltato il giorno di Natale:

il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1, 14)

Si fece carne. Carne come la nostra. Carne visibile, tangibile, con cui si può interagire, comunicare, confrontarsi. Ma come si concretizza questa carne? Ecco, la famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria con le loro situazioni a volte difficili da affrontare, ci aiuta a cogliere questa ‘concretizzazione’, questa incarnazione, questo ‘abitare in mezzo a noi’ di Dio.
Un primo motivo di interesse della figura di Giuseppe era stato già notato ed è la sua difficile situazione personale, di un uomo che deve accollarsi volente o nolente una responsabilità doppia, verso Maria e verso un bambino che non è suo. Questa ‘paternità a metà’ ha degli ulteriori risvolti. Per ben quattro volte in questo testo viene sottolineata la non paternità di Giuseppe: ‘prendi il bambino e sua madre’ … ‘prese il bambino e sua madre’… Non è suo figlio. È figlio di Maria ma non suo. È figlio di un altro. Un Altro con la A maiuscola, ma pur sempre un altro. Maria da parte sua deve certamente anche lei affrontare le sue perplessità e i suoi dubbi (li si vede chiaramente nell’episodio dell’annunciazione), ma in Giuseppe tutte queste difficoltà mi sembrano più vive, faticose. Maria ha in sé e partorisce un bambino che proviene direttamente da Dio, ma ne è pur sempre la madre. Giuseppe non ha neppure questo legame fisico. Eppure deve contemporaneamente rispondere alle proprie responsabilità di marito, ai propri doveri di custode e ai comandi di Dio.


Ed ecco che emerge un altro particolare proprio di Giuseppe: i sogni. Ne abbiamo già visto uno al momento della rassicurazione che Dio gli dà quando viene a sapere che Maria aspetta un bambino non suo. In questo testo i sogni sono il modo continuo con cui Dio comunica con Giuseppe. Sulle perplessità che suscita questa modalità espressiva di Dio si è già detto, ma c’è ancora un aspetto non secondario. Mentre per noi i sogni sono espressione indefinibile e assai inaffidabile della psiche umana, nella storia di Israele hanno invece un posto di tutto rispetto come strumento con cui Dio sceglie di comunicare con l’uomo. Questo però prima dell’arrivo di Cristo. C’è un testo di san Giovanni della Croce che esprime molto bene questo passaggio:

Il motivo principale per cui, nell'antica Legge, era lecito interrogare Dio ed era giusto che i sacerdoti e i profeti desiderassero visioni e rivelazioni divine, è che la fede non era ancora fondata e la legge evangelica non ancora stabilita. Era quindi necessario che si interrogasse Dio e che Dio rispondesse con parole o con visioni e rivelazioni, con figure e simboli o con altri mezzi d'espressione. Egli infatti rispondeva, parlava o rivelava misteri della nostra fede, o verità che ad essa si riferivano o ad essa conducevano. Ma ora che la fede è basata in Cristo e la legge evangelica è stabilita in quest'era di grazia, non è più necessario consultare Dio, né che egli parli o risponda come allora. Infatti donandoci il Figlio suo, ch'è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta e non ha più nulla da rivelare.
San Giovanni della Croce – Salita al monte Carmelo

Giuseppe è l’ultimo degli antichi a cui Dio parla ancora attraverso i sogni. È l’ultimo perché già con Maria Dio entra a far parte della nostra storia carnale, e da lei in poi l’uomo è consanguineo di Dio, e i sogni, ‘comunicazione a distanza’, non servono più. Potremmo dire che Giuseppe è l’ultimo degli antichi patriarchi e profeti, a cui Dio aveva preannunciato l’invio del Messia, ma ‘ancora da lontano’

Oracolo di chi ode le parole di Dio
e conosce la scienza dell'Altissimo,
di chi vede la visione dell'Onnipotente,
e cade ed è tolto il velo dai suoi occhi.
Io lo vedo, ma non ora,
io lo contemplo, ma non da vicino:
Una stella spunta da Giacobbe
e uno scettro sorge da Israele. Num 24, 16-17

Dio aveva parlato molte volte attraverso il canale dei sogni.

Giacobbe fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli stava davanti e disse: "Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. Gen 28, 10-13
Il faraone disse a Giuseppe: "Ho fatto un sogno e nessuno lo sa interpretare; ora io ho sentito dire di te che ti basta ascoltare un sogno per interpretarlo subito". Giuseppe rispose al faraone: "Non io, ma Dio darà la risposta per la salute del faraone!". Gen 41, 15-16
Ariòch condusse in fretta Daniele alla presenza del re e gli disse: “Ho trovato un uomo fra i Giudei deportati, il quale farà conoscere al re la spiegazione del sogno”. Il re disse allora a Daniele, chiamato Baltazzàr: “Puoi tu davvero rivelarmi il sogno che ho fatto e darmene la spiegazione?”. Daniele, davanti al re, rispose: “Il mistero di cui il re chiede la spiegazione non può essere spiegato né da saggi, né da astrologi, né da maghi, né da indovini; ma c'è un Dio nel cielo che svela i misteri ed egli ha rivelato al re Nabucodònosor quel che avverrà al finire dei giorni. Dn 2, 25-28

Con Giuseppe Dio comunica ancora con questo antico canale. Forse per rimarcare che  in lui non c’è ancora la carne di Dio, mentre in Maria sì.

fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».

La carnalità, la concretezza drammatica dell’abitare di Dio in mezzo a noi si concretizza anche nelle vicende che la famiglia di Gesù deve affrontare. Il bambino è in pericolo. Erode vuole ucciderlo. Erode il Grande doveva essere un uomo particolarmente crudele, e ossessionato dalla paura di intrighi per togliergli il regno (a causa di questo fece uccidere la moglie e alcuni dei suoi figli). Il bambino è minacciato da un pericolo grave, e Giuseppe con Maria devono correre ai ripari.

Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio.

Un episodio, questo della fuga in Egitto, che porta con sé alcune suggestioni interessanti. Sappiamo che Erode è morto nel 4 a.C. quando Gesù aveva circa 2-3 anni (il conteggio degli anni a partire dalla nascita di Cristo da parte del monaco Dionigi il Piccolo è stato errato). Quindi la famiglia di Gesù deve aver vissuto in Egitto per un certo tempo. E questo viaggio, questa fuga, porta con sé tutta una serie di considerazioni: Giuseppe, Maria e Gesù sono stati per alcuni anni dei profughi, degli emigrati in un paese straniero. E lo sono stati a causa di una minaccia. Non sono andati in vacanza, hanno dovuto scappare dal proprio paese per sfuggire alla morte. Proprio come milioni di profughi e di emigrati di tutti i tempi che hanno dovuto o devono lasciare il proprio paese per una terra straniera. Non sappiamo come si sia trovata la famiglia di Gesù, ma certo deve essere stata una esperienza difficile: un paese straniero, un’altra lingua, forse anche diffidenza e disprezzo. E oltre a questo il viaggio. Di questo viaggio non se ne parla molto, anche perché non se ne sa nulla, ma alcune cose si possono notare. Non può essere avvenuto che in due modi: per terra o per mare. Nel primo caso un viaggio di circa 500 km passando attraverso il deserto del Sinai. Nel secondo caso imbarcandosi e arrivando in Egitto via Mediterraneo. Insomma, una famiglia di migranti su un barcone come tante ne stiamo vedendo in questi anni.


Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».

Giuseppe e la sua famiglia, dopo questi anni avventurosi tornano al paese in cui Giuseppe viveva prima della nascita di Gesù. da Nazaret Giuseppe era dovuto allontanarsi a causa del censimento dell'imperatore Augusto.

Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Lc 2, 4

Con il ritorno a Nazaret inizia un periodo tranquillo per la famiglia di Nazaret. Per molti anni Gesù crescerà e vivrà come tanti altri bambini, ragazzi, giovani. Ma di quel periodo conosciamo un episodio che ancora riguarda Giuseppe. Gesù ha 12 anni e si allontana dalla famiglia durante un viaggio a Gerusalemme, e viene ritrovato nel tempio.

…sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».  Lc 2, 48-49

…e il padre di cui parla Gesù non è certo Giuseppe.