martedì 28 maggio 2013
martedì 21 maggio 2013
sabato 18 maggio 2013
mi ami?
Gv 21, 1-19
Gesù
si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così:
si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di
Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli.
Ciascuno dei componenti di questo gruppo è identificato dal
proprio nome (tranne ‘gli altri due discepoli’) e da un altro appellativo, ogni
volta riferito a un aspetto diverso della propria vita:
Simone ha il nome che gli ha dato Gesù stesso: Pietro.
Tommaso ha un soprannome: Didimo, gemello.
Natanaele è identificato dalla sua origine: Cana di Galilea.
Giacomo e Giovanni sono identificati dal nome del padre,
Zebedeo.
Gli ‘altri due discepoli’ lasciano la possibilità di inserire in
questo gruppo anche i nostri nomi, se vogliamo. Oppure rappresentano ‘gli
altri’ che la chiesa comincia ad accogliere, oltre gli apostoli e i discepoli. siamo
nei giorni dopo la resurrezione di Gesù, ma questo periodo dura ancora oggi. Ciascuno
di questi personaggi arriva da una propria esperienza personale, da una propria
famiglia, luogo di origine, condizione sociale. Così era formato il gruppo
degli apostoli. Così è formata anche la chiesa.
Disse
loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con
te».
Questa affermazione di Pietro può essere letta in due modi.
Pietro, dopo l’intensa esperienza con Gesù, comprendente anche
l’incontro con lui risorto, guarda indietro, alla sua vita precedente
l’incontro con Gesù, e in qualche modo considera conclusa, per quanto bella sia
stata, quella esperienza. Il richiamo della vita quotidiana, con le sue
esigenze, è forte (non dimentichiamo che Pietro è sposato, e ha una famiglia a
cui badare). È stato bello stare con Gesù, ma ora bisogna pensare a vivere. Quell’esperienza
non lo ha ancora coinvolto fino in fondo, tanto da segnarlo definitivamente.
Altra lettura, più simbolica, spirituale: Pietro è stato
chiamato da Gesù a diventare pescatore di uomini. Quel suo ‘vado a pescare’ può
essere visto come un tentativo di Pietro di darsi da fare in quel senso, anche
se l’episodio parla di una pesca materiale, di pesci veri e propri. Ovviamente
le letture spirituali e simboliche sono sempre pericolose, perché rischiano di
dire tutto e il contrario di tutto. Ma la continuazione del brano mi sembra
lasci qualche spiraglio in quella direzione. Non dimentichiamo che siamo nel
vangelo di Giovanni, che contiene profonde riflessioni spirituali e teologiche.
Pietro decide di andare a pescare, di darsi da fare, ma senza il Signore. Gli
altri lo seguono.
Allora
uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già
era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era
Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero:
«No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e
troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande
quantità di pesci.
A differenza degli apostoli, che hanno tentato di fare da soli
senza ottenere nulla, senza fatica Gesù si propone come l’unico che può
ottenere risultati.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può
portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non
rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta
molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Gv 15, 4-5
Allora
quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro,
appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché
era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la
barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra
se non un centinaio di metri.
La consapevolezza di Pietro, aiutato in questo da Giovanni, ci
riporta all’ipotesi simbolica accennata più sopra. Pietro era convinto di dover
fare da solo non perché fosse egoista, ma perché riteneva che davvero ora
toccasse a lui. Ma da solo non sa vedere la presenza del Signore. Ha bisogno di
un aiuto, di qualcuno che conosca meglio di lui il Signore e che sappia
individuare la sua presenza.
Da secoli nelle due figure di Pietro e di Giovanni la chiesa
intravede la propria parte gerarchica (Pietro, il primo papa) e la propria
parte spirituale (Giovanni, il discepolo che Gesù amava). È Pietro il capo, ma
è Giovanni che sa vedere meglio Gesù, e Pietro senza Giovanni non sa sempre
guardare nella direzione giusta. Pietro deve farsi aiutare da Giovanni, e
Giovanni deve saper rispettare il ruolo di Pietro.
C’è un altro episodio, sempre nel vangelo di Giovanni, in cui si
vedono bene i due ruoli:
Maria
di Màgdala … corse e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che
Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non
sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e
si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo
corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i
teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo
seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che
era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a
parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al
sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura,
che cioè egli doveva risorgere dai morti. I discepoli perciò se ne tornarono di
nuovo a casa. Gv 20, 1-10
Giovanni arriva primo, ma lascia entrare Pietro prima di lui. Ma
è ancora Giovanni che riesce a ‘vedere e credere’ per primo. Intuizione che
sarà preziosa proprio nell’episodio che stiamo analizzando.
Appena
scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane.
Gesù ha già pescato per loro, mentre si arrabattavano in mezzo
al mare. E al pesce ha aggiunto anche del pane.
Disse
loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro
salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi
pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò.
Gesù si fa comunque portare del pesce che loro hanno pescato (su
suo intervento). Giovanni è un vangelo molto complesso, in cui l’autore agli
eventi della vita di Gesù aggiunge una visione più vasta, che fa intravedere dietro
alle vicende del gruppo degli apostoli la vita della comunità cristiana. Cominciano
a delinearsi i criteri con cui la comunità cristiana deve valutare la propria
efficienza, secondo Gesù: noi facciamo qualcosina, su sua indicazione, e solo
quello che facciamo guidati da lui porta risultati, e intanto lui per conto suo
fa qualcos’altro, probabilmente molto più di quello che possiamo aver fatto noi
con i nostri sforzi. E poi si mette insieme il tutto.
Gesù
disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli:
«Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il
pane e lo diede loro, e così pure il pesce.
‘Venite a mangiare’. Per lavorare occorre mangiare. Anche per
lavorare nella vigna del Signore, anche per essere validi pescatori di uomini
bisogna mangiare. Ma il cibo che serve per fare queste cose non è tanto il cibo
materiale, quanto quello sacramentale: l’Eucarestia in modo particolare (‘prese
del pane e lo diede loro’, richiamo all’istituzione dell’Eucarestia nell’Ultima
Cena). Notare che il pane lo ha procurato Gesù. E non è solo un ‘cibo’
spirituale che Gesù offre, ma in quel cibo, nell’Eucarestia, c’è lui stesso, il
suo corpo, la sua presenza. Gesù non offre solo ai discepoli gli insegnamenti,
le indicazioni e gli aiuti perché riescano a portare a compimento il loro
incarico, ma li invita a diventare come lui, a diventare lui. Questo fa l’Eucarestia.
Era
la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai
morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di
Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che
ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la
seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo,
Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli
disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro
rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli
disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose
Gesù: «Pasci le mie pecore.
Ora tocca a Pietro. Tre domande che risistemano i tre suoi
precedenti rinnegamenti. Ma dichiarano anche il criterio fondamentale che Gesù
vuole dare ai suoi, alla comunità che sarà di lì a breve chiamata ‘cristiana’:
non importa tanto l’organizzazione quanto l’amore verso Cristo.
Il cristiano non è colui che si dà da fare per conto suo ‘in nome
di Cristo’ ma è chi fa le cose di Cristo, anzi, è colui che poco a poco diventa
Cristo, perciò non può fare che le cose che fa lui. Il cristiano è colui che
per prima cosa deve chiedersi ogni giorno: quanto amo Cristo? Quanto cammino
con lui? Quanto lui è in me? La domanda viene fatta a Pietro anche perché
Pietro è colui a cui Gesù ha affidato la guida di questa comunità. Gesù non gli
chiede: ti sei organizzato bene? Hai pensato a quali strutture costruire? Sei
un buon manager? Gli chiede: mi ami? Se sì, questo basta.
Gesù lo sa benissimo che Pietro è insufficiente, non capace,
difettoso. Ma per Gesù questo non ha importanza. Anzi, è meglio, così non si
monta la testa. San Paolo saprà rendere molto bene questa esperienza che lui ha
vissuto in modo molto intenso:
Perché non montassi in superbia per la grandezza delle
rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana
incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di
questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed
egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta
pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie
debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo … quando sono debole, è
allora che sono forte. II Cor 12, 7-10
Questa domanda fatta davanti a tutti gli altri è anche una
indicazione per loro, mentre viene loro proposto Pietro come capo: controllate
che si occupi in primo luogo di questo, voi suoi collaboratori.
In
verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e
andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti
vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale
morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Ora finalmente il ‘seguimi’ di Gesù comincia ad avere un senso
più completo. Il primo ‘seguimi’ era quello di un maestro che si tira dietro
degli allievi, che non hanno ancora capito bene, ma ora è un comando definitivo: questo devi fare, Pietro,
seguirmi, non come hai voluto fare in passato, quando avevi cercato di starmi
davanti
Pietro
lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando
i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché
tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Mc 8, 32-33
Quando diventerai me, allora davvero penserai secondo Dio.
sabato 11 maggio 2013
lunedì 6 maggio 2013
capo e corpo
Come il capo e
il corpo formano un unico uomo, così il Figlio della Vergine e le sue membra costituiscono
un solo uomo e l’unico Figlio dell’uomo. Secondo la Scrittura il Cristo totale
e integrale è capo e corpo, vale a dire tutte le membra assieme sono un unico
corpo, il quale con il suo capo è l’unico Figlio dell’uomo, con il Figlio di
Dio è l’unico Figlio di Dio, con Dio è lui stesso un solo Dio. Quindi tutto il
corpo con il capo è Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, Dio. Perciò si legge
nel vangelo: Voglio, o Padre, che come io e tu siamo una cosa sola, così
anch’essi siano una cosa sola con noi (cfr. Gv 17, 21). Secondo questo testo
della Scrittura, né il corpo è senza capo né il capo senza corpo, né il Cristo
totale, capo e corpo, è senza Dio. Tutto con Dio è un solo Dio. Ma il Figlio di
Dio è con Dio per natura, il Figlio dell’uomo è con lui in persona, mentre il
suo corpo forma con lui una realtà sacramentale. Pertanto le membra autentiche
e fedeli di Cristo possono dire di sé, in tutta verità, ciò che egli è, anche
Figlio di Dio, anche Dio. Ma ciò che egli è per natura, le membra lo sono per
partecipazione; ciò che egli è, lo è in pienezza, esse lo sono solo
parzialmente. Infine ciò che il Figlio di Dio è per generazione, le sue membra
lo sono per adozione, come sta scritto: «Avete ricevuto uno spirito di figli
adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!» (Rm 8, 15).
Secondo questo spirito «diede loro il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1, 12), perché ad
uno ad uno siamo ammaestrati, da colui che è il primogenito tra molti fratelli,
a dire: «Padre nostro, che sei nei cieli». Infatti
per quel medesimo Spirito Santo per cui il Figlio dell’uomo, nostro capo, è nato dal
grembo della Vergine, noi rinasciamo dal fonte battesimale figli di Dio, suo
corpo. E come egli fu senza alcun peccato, così anche noi otteniamo la
remissione di tutti i peccati. Come egli portò sulla croce nel suo corpo di
carne i peccati di tutto il corpo di carne, così dona a tutto il corpo mistico
la liberazione dei peccati per la grazia della rigenerazione. Sta scritto
infatti: «Beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male» (Sal 31, 2). Questo
uomo beato è senza dubbio Cristo. Egli per il fatto che il capo del Cristo
mistico è Dio, rimette i peccati; e per il fatto che il capo del corpo è un
unico uomo, non ha nulla da farsi perdonare. E poi, anche se il corpo del capo
è costituito da molti, niente gli è imputato. Egli è giusto in se stesso e
giustifica se stesso. Unico salvatore, unico salvato. Egli portò nel suo corpo
sulla croce ciò che rimosse dal suo corpo attraverso il battesimo e salva
ancora per mezzo della croce e dell’acqua. È Agnello di Dio che toglie i
peccati del mondo, che aveva preso su di sé. È sacerdote e sacrificio e Dio.
Per questo offrendo sé a se stesso, riconcilia se stesso per mezzo di se stesso
con se stesso e inoltre con il Padre e con lo Spirito Santo.
Dai «Discorsi» del beato Isacco, abate del monastero
della Stella
giovedì 2 maggio 2013
Berlicche 18
Mio caro
Malacoda,
perfino
sotto Ciriatto Sannuto devi aver appreso nel collegio la tecnica monotona della
tentazione sessuale, e dal momento che, per noi spiriti, questo argomento è
quanto mai stucchevole (benchè necessario come parte della nostra educazione),
voglio passarci sopra. Ma sui grandi problemi che esso implica credo che tu
abbia molto da imparare.
Ciò
che il Nemico esige dagli uomini prende la forma di un dilemma: o astinenza
completa, oppure assoluta monogamia. Fin dalla prima grande vittoria di Nostro
Padre abbiamo reso loro difficilissima la prima. E negli ultimi secoli abbiamo
continuato a restringere sempre più la seconda, come via di evasione. Abbiamo fatto
ciò per mezzo dei poeti e dei romanzieri, che hanno convinto gli esseri umani
che un’esperienza curiosa e di solito di breve durata chiamata da essi ‘innamorarsi’,
è l’unico motivo rispettabile per sposarsi. Che il matrimonio può, e dovrebbe,
rendere permanente questa eccitazione. E che un matrimonio che non lo fa non
obbliga più.
Codesta
idea è la nostra parodia di un’idea che viene dal Nemico. Tutta la filosofia
dell’inferno consiste nel riconoscimento dell’assioma che una cosa non è un’altra,
e specialmente che un io non è un altro io. Il mio bene è il mio bene, il tuo è
il tuo. Ciò che uno guadagna un altro perde. Perfino un oggetto inanimato è ciò
che è, perché esclude dallo spazio che occupa tutti gli altri oggetti. Se si
espande, lo fa spingendo da una parte tutti gli altri oggetti, oppure
assorbendoli. E l’io fa la stessa cosa. Con le bestie l’assorbimento prende la
forma del cibarsi. Per noi significa assorbire la volontà e la libertà da un io
più debole in uno più forte. ‘Essere’ significa ‘essere in competizione’. Orbene,
la filosofia del Nemico non è né più né meno di un continuo tentativo di
evasione da questa verità evidentissima. Egli ha di mira una contraddizione: le
cose devono essere molte e tuttavia, in qualche modo, anche una. Il bene di uno
deve essere anche il bene di un altro. Egli chiama questa impossibilità ‘amore’,
e questa stessa panacea può scoprirsi in tutto ciò che egli fa, e perfino in
ciò che egli è (o pretende di essere). Così, egli non si accontenta neppure in
se stesso di essere una pura unità matematica, e pretende di essere tre così come
uno, affinchè questo assurdo riguardo all’amore trovi un punto d’appoggio nella
sua stessa natura. All’altra estremità della scala introduce nella materia
quell’oscena invenzione, l’organismo, nel quale le parti sono pervertite dal
loro destino naturale di competizione perché collaborino. Il suo vero motivo
per fissarsi sul sesso come metodo di riproduzione tra gli esseri umani risulta
troppo chiaro dall’uso che egli ne ha fatto. Dal nostro punto di vista il sesso
avrebbe potuto essere innocentissimo. Avrebbe potuto costituire semplicemente
un’altra maniera con la quale l’io più forte depredava l’io più debole, come di
fatto avviene per i ragni, dove la sposa conclude le nozze mangiandosi lo
sposo. Ma tra gli esseri umani il Nemico ha associato gratuitamente l’affetto
tra le due parti con il desiderio sessuale. Ha inoltre reso la figliolanza
dipendente dai genitori e ha dato ai genitori l’impulso di sostenerla,
producendo in tal modo la ‘famiglia’, che assomiglia all’organismo, solo è
peggiore perché i membri sono più distinti, e tuttavia anche uniti in una
maniera più cosciente e più responsabile. Tutta la costruzione infatti si
riduce ad essere semplicemente un’altra invenzione per trascinare dentro all’Amore.
Ora viene lo scherzo: il Nemico ha descritto la coppia sposata come ‘una sola
carne’. Non ha detto ‘una coppia felicemente sposata’, e neppure ‘una coppia
che si è sposata perché i due si amavano’, ma si può fare in modo che gli
uomini ignorino tutto ciò. Si può anche far loro dimenticare che quell’uomo che
si chiama Paolo non ha ristretto la cosa alle coppie sposate. Semplicemente il
congiungimento, per lui, forma ‘una sola carne’. Si può così fare in modo che
gli esseri umani accettino come eulogie retoriche dell’essere innamorati quelle
cose che di fatto non sono se non semplici descrizioni del vero significato del
rapporto sessuale. La verità è che, ogni volta che un uomo va con una donna,
piaccia loro o non piaccia, sorge tra di loro una relazione trascendentale che
deve essere eternamente goduta o eternamente sopportata. Dall’affermazione vera
che questa relazione trascendentale era stata voluta perché producesse e (se la
si pone con spirito di obbedienza) troppo spesso produrrà di fatto, l’affetto e
la famiglia, gli uomini possono venire indotti a concludere la falsa credenza
che la misura di affetto, paura e desiderio che essi chiamano ‘essere
innamorato’ sia l’unica cosa che fa felice il matrimonio. Questo errore si può
produrre con facilità perché, nell’Europa occidentale, spessissimo l’innamorarsi
precede i matrimoni, che vengono fatti con l’intenzione di obbedire ai disegni
del Nemico, vale a dire con l’intenzione della fedeltà, della fecondità e della
buona volontà, come molto spesso, sebbene non sempre, l’emozione religiosa
accompagna la conversione. In altre parole, bisogna incoraggiare gli uomini a
considerare come base del matrimonio una versione a colori vivaci e distorta di
qualcosa che il Nemico promette veramente come suo risultato. Ne seguiranno due
vantaggi. In primo luogo, gli esseri umani che non hanno il dono della
continenza si allontaneranno con terrore dal cercare il matrimonio come una
soluzione, perché non si sentono ‘innamorati’. E, grazie a noi, l’idea di
sposarsi per qualsiasi altro motivo appare loro come bassa e cinica. Sì,
pensano proprio così. Essi considerano l’idea della lealtà verso un compagno
allo scopo di recarsi un aiuto reciproco, o di preservare la castità, o di
trasmettere la vita, come qualcosa di più basso che non una tempesta di
emozione. (non tralasciare di far credere al tuo uomo che la funzione religiosa
del matrimonio è ripugnante). In secondo luogo, qualsiasi infatuazione sessuale
dovrà essere considerata come ‘amore’, e si deve far credere che ‘l’amore’
scusa l’uomo da ogni colpa, e lo protegge da tutte le conseguenze dello sposare
un pagano, uno sciocco o un vizioso. Ma ritornerò sull’argomento nella prossima
lettera.
Tuo
affezionatissimo zio
Berlicche
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