venerdì 8 febbraio 2013

profeta in patria



Lc 4, 16-30

Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Come già notato, una dichiarazione strabiliante, per un ebreo. Se la Scrittura si è compiuta l’attesa del Messia è finita, e il Messia è arrivato. Ma cosa si intende per ‘Messia’? In realtà nella storia del popolo di Israele questo termine ha avuto diverse connotazioni, in  parte dovute anche alla situazione storico-politica che nei diversi periodi Israele stava vivendo. Inoltre il Messia era atteso perchè promesso da Dio, ma le promesse con comprendevano una descrizione che permettesse di individuarlo in base a delle caratteristiche precise. Per molto tempo il Messia è stato visto come una figura regale, legata alla discendenza di Davide, ma dopo l’esilio e la distruzione della famiglia davidica questa figura ha perso significato, e di volta in volta è stata vista come una figura profetica, o sacerdotale, o di liberatore. La cosa curiosa è che diversi gruppi o correnti all’interno dell’ebraismo sostenevano ciascuno una di queste interpretazioni della figura messianica, ma nessuno, fino al nuovo testamento, aveva mai pensato a una figura che riassumesse in sé tutti questi titoli.
Questo forse può spiegare la diversa accoglienza fatta a Gesù da parte di chi non vedeva in lui il tipo di Messia che aveva in mente.
In realtà pare che Gesù li abbia scontentati tutti, perché se è possibile vedere in lui ciascuna delle caratteristiche messianiche che abbiamo delineato, è anche vero che Gesù le supera tutte e si pone su un livello assolutamente impensabile nel mondo ebraico. Infatti tutte le caratteristiche del Messia fino ad allora hanno comunque in comune l’essere riferite a un uomo. Inviato da Dio, mandato da Dio, incaricato da Dio, ma pur sempre una figura umana. Gesù esce da questa visione delle cose, scardina tutte le attese messianiche e le ripresenta in se stesso, come figura molto diversa da quello che ci si aspettava. Lo si vede bene nella prosecuzione degli eventi della sua vita e nelle cose che dice: è un Messia diverso dalle attese, che insiste a presentarsi con una familiarità e una condivisione di identità con Dio che arriva a scandalizzare, e nello stesso tempo con connotati che non erano mai stati presi in considerazione nella figura del Messia, in particolare la debolezza e la sofferenza.
In qualunque modo si intendesse in Israele la figura del Messia, era sempre una figura potente, liberante, vittoriosa. Gesù non è nulla di tutto questo, o quantomeno non lo è a livello sociale e politico. Il suo intervento è sempre personale, anche quando ha a che fare con le folle. E il suo ‘potere’ è sempre rivolto contro il ‘male’, non tanto contro le istituzioni, per quanto oppressive. Tant'è vero che quasi mai si scontra con i dominatori romani (come avrebbero voluto anche alcuni dei suoi discepoli) mentre spesso si scontra con le autorità religiose, quando ritiene che non siano fedeli alla rivelazione divina che pure hanno il compito di rappresentare. Il male Gesù lo vede quindi più nella disobbedienza alla legge di Dio che nella violenza delle azioni della legge umana.


Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso.

Gesù da parte sua non è che si preoccupa molto di spiegare, di chiarire, di mettere in luce il proprio modo di essere Messia. Anzi, non spiega niente e va dritto per la sua strada, che piaccia o no a chi lo incontra. Non solo, ma in alcune situazioni, come questa, si comporta in modo addirittura indisponente e antipatico.
Ha scelto di andare a Nazaret, paese in cui ha vissuto una trentina d’anni in modo assai anonimo, e dove tutti lo conoscono. E lì, di punto in bianco, un sabato in sinagoga, si presenta come colui che compie la Scrittura. Credo che sia comprensibile che i suoi compaesani siano rimasti spiazzati e sorpresi da queste sue parole.

Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”».

Per inciso è da notare questa curiosa citazione. Nel vangelo di Luca quelle di Nazaret sono le prime parole ‘ufficiali’ di Gesù. I capitoli precedenti hanno raccontato della sua nascita e poi del suo battesimo e dei quaranta giorni nel deserto. In base al racconto non c’è stato nessun avvenimento a Cafarnao. Questo particolare, insieme a molti altri, ci induce a pensare che Luca, come anche gli altri evangelisti, non abbia voluto fare un racconto cronologico e puramente cronachistico della vita di Gesù, ma che abbia sistemato e selezionato i vari eventi secondo uno schema teologico e pastorale che aveva in mente. Per cui, come Giovanni situa a Cana il ‘primo dei segni’, Luca tralascia altri episodi e preferisce mettere il ‘primo degli annunci’ a Nazaret, paese in cui Gesù ha vissuto per anni. Credo che il messaggio teologico sia quello di voler avvertire i lettori di fare attenzione a non considerarsi troppo conoscitori di Gesù. Gesù non lo si può inscatolare troppo nelle nostre categorie, pericolo che corrono in particolare i 'suoi', quelli che credono di conoscerlo meglio. Gesù è sempre ‘oltre’, sempre fuori dei nostri schemi.

Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».

Dicevo dell’antipatia di Gesù. Quando si mette è proprio indisponente. I suoi compaesani sono meravigliati e stupiti, ma è comprensibile, considerando che è stato lui stesso a voler vivere anonimamente tra di loro per trent’anni. ‘Non è il figlio di Giuseppe?’. La domanda è più che legittima. Non viene citato alcun altro atteggiamento o parola ostile, eppure Gesù fa tutto lui. Mette loro in bocca le parole: ‘mi citerete il proverbio…’, mi direte ‘quello che accadde a Cafarnao…’. Rincara la dose citando Elia mandato a una straniera e uno straniero guarito da Eliseo.

All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù.


Credo che si possa intravedere in questo episodio, oltre all’eco di una effettiva perplessità e magari anche ostilità dei compaesani di Gesù (giustificata però dal fatto che Gesù, come abbiamo visto, non fa nulla per mitigare le sue affermazioni) alle parole di uno che si assume il titolo di Messia, in filigrana una prima immagine che Luca ci vuole lasciare di come andrà a finire la vita di Gesù: cacciato fuori della città.

Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Anche l’ultima frase di questo episodio è non solo un resoconto di quello che è successo, ma del senso generale di quello che Gesù sta facendo: non è ancora giunta ‘la sua ora’, e Gesù deve ancora cominciare il suo cammino, quindi non è il momento della sua fine. Siamo solo all’inizio. La frase richiama anche il cammino del popolo di Israele guidato da Mosè: passa in mezzo al mar Rosso e cammina verso la terra promessa.


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