mercoledì 20 febbraio 2013

preghiera

Concedimi, o Dio misericordioso,
di desiderare ciò che tu approvi,
di ricercarlo con prudenza,
di riconoscerlo con verità,
di compierlo in modo perfetto,

a lode e gloria del tuo nome.
Metti ordine nella mia vita,
fammi conoscere ciò che vuoi che io faccia,
e concedimi di compierlo come si deve.
Che io cammini verso di te, Signore,
seguendo una strada sicura, diritta, praticabile
e capace di condurre alla meta,
una strada che non si smarrisca fra il benessere o fra le difficoltà.
Che io ti renda grazie quando le cose vanno bene,
e nelle avversità conservi la pazienza,
senza esaltarmi nella prosperità
e senza abbattermi nei momenti più duri.
Che io mi stanchi di ogni gioia in cui tu non sei presente,
che non desideri nulla all'infuori di te.
Ogni lavoro da compiere per te mi sia gradito, Signore,
e insopportabile senza di te ogni riposo.
Donami di rivolgere spesso il mio cuore a te,
e quando cedo alla debolezza,
fa' che riconosca la mia colpa con dolore,
e col fermo proposito di correggermi.
Signore, mio Dio,
donami un cuore vigile, che nessun pensiero malsano trascini lontano da te;
un cuore nobile che nessun indegno attaccamento degradi;
un cuore retto che nessuna intenzione equivoca possa sviare;
un cuore fermo che resista ad ogni avversità;
un cuore libero che nessuna passione violenta possa soggiogare.
Concedimi, Signore mio Dio,
un'intelligenza che ti conosca,
uno zelo che ti cerchi,
una sapienza che ti trovi,
una vita che ti piaccia,
una perseveranza che ti attenda con fiducia,
e una fiducia che alla fine arrivi a possederti. 


san Tommaso d'Aquino


giovedì 14 febbraio 2013

Il disco si posò




Era sera e la campagna già mezza addormentata, dalle vallette levandosi lanugini di nebbia e il richiamo della rana solitaria che però subito taceva (l’ora che sconfigge anche i cuori di ghiaccio, col cielo limpido, l’inspiegabile serenità del mondo, l’odor di fumo, i pipistrelli e nelle antiche case i passi felpati degli spiriti), quand’ecco il disco volante si posò sul tetto della chiesa parrocchiale, la quale sorge al sommo del paese. All’insaputa degli uomini che erano già rientrati nelle case, l’ordigno si calò verticalmente giù dagli spazi, esitò qualche istante, mandando una specie di ronzio, poi toccò il tetto senza strepito, come colomba. Era grande, lucido, compatto, simile a una lenticchia mastodontica; e da certi sfiatatoi continuò a uscire zufolando un soffio. Poi tacque e restò fermo, come morto.

Lassù nella sua camera che dà sul tetto della chiesa, il parroco, don Pietro, stava leggendo, col suo toscano in bocca. All’udire l’insolito ronzio, si alzò dalla poltrona e andò ad affacciarsi al davanzale. Vide allora quel coso straordinario, colore azzurro chiaro, diametro circa dieci metri. Non gli venne paura, né gridò, neppure rimase sbalordito. Si è mai meravigliato di qualcosa il fragoroso e imperterrito don Pietro? Rimase là, col toscano, ad osservare. E quando vide aprirsi uno sportello, gli bastò allungare un braccio: là al muro c’era appesa la doppietta.

Ora sui connotati dei due strani esseri che uscirono dal disco non si ha nessun affidamento. È un tale confusionario, don Pietro. Nei successivi suoi racconti ha continuato a contraddirsi. Di sicuro si sa solo questo: ch’erano smilzi e di statura piccola, un metro un metro e dieci. Però lui dice anche che si allungavano e si accorciavano come fossero di elastico. Circa la forma, non si è capito molto: «Sembravano due zampilli di fontana, più grossi in cima e stretti in basso» così don Pietro «sembravano due spiritelli, sembravano due insetti, sembravano scopette, sembravano due grandi fiammiferi.» «E avevano due occhi come noi?» «Certo, uno per parte, però piccoli.» E la bocca? e le braccia? e le gambe? Don Pietro non sapeva decidersi: «In certi momenti vedevo due gambette e un secondo dopo non le vedevo più... Insomma, che ne so io? Lasciatemi una buona volta in pace!».

Zitto, il prete li lasciò armeggiare col disco. Parlottavano tra loro a bassa voce, un dialogo che assomigliava a un cigolio. Poi si arrampicarono sul tetto, che ha una moderatissima pendenza, e raggiunsero la croce, quella che è in cima alla facciata. Ci girarono intorno, la toccarono, sembrava prendessero misure. Per un pezzo don Pietro lasciò fare, sempre imbracciando la doppietta. Ma all’improvviso cambiò idea. «Ehi!» gridò con la sua voce rimbombante. «Giù di là, giovanotti. Chi siete?»

I due si voltarono a guardarlo e sembravano poco emozionati. Però scesero subito, avvicinandosi alla finestra del prevosto. Poi il più alto cominciò a parlare. Don Pietro, ce lo ha lui stesso confessato, rimase male: il marziano (perché fin dal primo istante, chissà perché, il prete si era convinto che il disco venisse da Marte; né pensò di chiedere conferma), il marziano parlava una lingua sconosciuta. Ma era poi una vera lingua? Dei suoni, erano, per la verità non sgradevoli, tutti attaccati senza mai una pausa. Eppure il parroco capì subito tutto, come se fosse stato il suo dialetto. Trasmissione del pensiero? Oppure una specie di lingua universale automaticamente comprensibile?

«Calmo, calmo» lo straniero disse «tra poco ce n’andiamo. Sai? Da molto tempo noi vi giriamo intorno, e vi osserviamo, ascoltiamo le vostre radio, abbiamo imparato quasi tutto. Tu parli, per esempio, e io capisco. Solo una cosa non abbiamo decifrato. E proprio per questo siamo scesi. Che cosa sono queste antenne? (e faceva segno alla croce). Ne avete dappertutto, in cima alle torri e ai campanili, in vetta alle montagne, e poi ne tenete degli eserciti qua e là, chiusi da muri, come se fossero vivai. Puoi dirmi, uomo, a cosa servono?» «Ma sono croci!» fece don Pietro. E allora si accorse che quei due portavano sulla testa un ciuffo, come una tenue spazzola, alta una ventina di centimetri. No, non erano capelli, piuttosto assomigliavano a sottili steli vegetali, tremuli, estremamente vivi, che continuavano a vibrare. O invece erano dei piccoli raggi, o una corona di emanazioni elettriche?

«Croci» ripeté, compitando il forestiero. «E a che cosa servono?». Don Pietro posò il calcio della doppietta a terra, che gli restasse però sempre a portata di mano. Si drizzò quindi in tutta la statura, cercò di essere solenne:
«Servono alle nostre anime» rispose. «Sono il simbolo di Nostro Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, che per noi è morto in croce.» Sul capo dei marziani all’improvviso gli evanescenti ciuffi vibrarono. Era un segno di interesse o di emozione? O era quello il loro modo di ridere? «E dove, dove questo sarebbe successo?» chiese sempre il più grandetto, con quel suo squittio che ricordava le trasmissioni Morse; e c’era dentro un vago accento di ironia. «Dio, vuoi dire, sarebbe venuto qui, tra voi?». «Qui, sulla Terra, in Palestina.» Il tono incredulo irritò don Pietro. «Sarebbe una storia lunga» disse «una storia forse troppo lunga per dei sapienti come voi.». In capo allo straniero la leggiadra indefinibile corona oscillò due tre volte. Pareva che la muovesse il vento. «Oh, dev’essere una storia magnifica» fece con condiscendenza. «Uomo, vorrei proprio sentirla.»



Balenò nel cuore di don Pietro la speranza di convertire l’abitatore di un altro pianeta? Sarebbe stato un fatto storico, lui ne avrebbe avuto gloria eterna. «Se non vuoi altro» disse, rude. «Ma fatevi vicini, venite pure qui nella mia stanza.» Fu certo una scena straordinaria, nella camera del parroco, lui seduto allo scrittoio alla luce di una vecchia lampada, con la Bibbia tra le mani, e i due marziani in piedi sul letto perché don Pietro li aveva invitati ad accomodarsi, che si sedessero sul materasso, e insisteva, ma quelli a sedere non riuscivano, si vede che non ne erano capaci e tanto per non dir di no alla fine vi erano saliti, standovi ritti, il ciuffo più che mai irto e ondeggiante. «Ascoltate, spazzolini!» disse il prete, brusco, aprendo il libro, e lesse: “...l’Eterno Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino d’Eden... e diede questo comandamento: Mangia pure liberamente del frutto di ogni albero del giardino, ma del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare: perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo sarà la tua morte. Poi l’Eterno Iddio...”. Levò gli sguardi dalla pagina e vide che i due ciuffi erano in estrema agitazione. «C’è qualcosa che non va?». Chiese il marziano: «E, dimmi, l’avete mangiato, invece? Non avete saputo resistere? È andata così, vero?».
«Già. Ne mangiarono» ammise il prete, e la voce gli si riempì di collera. «Avrei voluto veder voi! È forse cresciuto in casa vostra l’albero del bene e del male?»

«Certo. È cresciuto anche da noi. Milioni e milioni di anni fa. Adesso è ancora verde...». «E voi?... I frutti, dico, non li avete mai assaggiati?». «Mai» disse lo straniero. «La legge lo proibisce.». Don Pietro ansimò, umiliato. Allora quei due erano puri, simili agli angeli del cielo, non conoscevano peccato, non sapevano che cosa fosse cattiveria, odio, menzogna? Si guardò intorno come cercando aiuto, finché scorse nella penombra, sopra il letto, il crocefisso nero. Si rianimò: «Sì, per quel frutto ci siamo rovinati... Ma il figlio di Dio» tuonò, e sentiva un groppo in gola «il figlio di Dio si è fatto uomo. Ed è sceso qui tra noi!». L’altro stava impassibile. Solo il suo ciuffo dondolava da una parte e dall’altra, simile a una beffarda fiamma.

«È venuto qui in Terra, dici? E voi, che ne avete fatto? Lo avete proclamato vostro re?... Se non sbaglio, tu dicevi ch’era morto in croce... Lo avete ucciso, dunque?». Don Pietro lottava fieramente: «Da allora sono passati quasi duemila anni! Purtroppo per noi è morto, per la nostra vita eterna!».

Tacque, non sapeva più che dire. E nell’angolo scuro le misteriose capigliature dei due ardevano, veramente ardevano di una straordinaria luce. Ci fu silenzio e allora di fuori si udì il canto dei grilli. «E tutto questo» domandò allora il marziano con la pazienza di un maestro «tutto questo è poi servito?». Don Pietro non parlò. Si limitò a fare un gesto con la destra, sconsolato, come per dire: che vuoi? siamo fatti così, peccatori siamo, poveri vermi peccatori che hanno bisogno della pietà di Dio. E qui cadde in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani.

Quanto tempo passò? Ore, minuti? Don Pietro fu riscosso dalla voce degli ospiti. Alzò gli occhi e li scorse già sul davanzale, in procinto, si sarebbe detto, di partire. Contro il cielo della notte i due ciuffi tremolavano con affascinante grazia. «Uomo» domandò il solito dei due. «Che stai facendo?». «Che sto facendo? Prego!... Voi no? Voi non pregate?»

«Pregare, noi? E perché pregare?». «Neanche Dio non lo pregate mai?». «Ma no!» disse la strana creatura e, chissà come, la sua corona vivida cessò all’improvviso di tremare, facendosi floscia e scolorita. «Oh, poveretti» mormorò don Pietro, ma in maniera che i due non lo udissero come si fa con i malati gravi. Si levò in piedi, il sangue riprese a correre con forza su e giù per le sue vene. Si era sentito un bruco, poco fa. E adesso era felice. “Eh, eh” ridacchiava dentro di sé “voi non avete il peccato originale con tutte le sue complicazioni. Galantuomini, sapienti, incensurati. Il demonio non lo avete mai incontrato. Quando però scende la sera, vorrei sapere come vi sentite! Maledettamente soli, presumo, morti di inutilità e di tedio.” (I due intanto si erano già infilati dentro allo sportello, lo avevano chiuso, e il motore già girava con un sordo e armoniosissimo ronzio. Piano piano, quasi per miracolo, il disco si staccò dal tetto, alzandosi come fosse un palloncino: poi prese a girare su se stesso, partì a velocità incredibile, su, su in direzione dei Gemelli.) «Oh» continuava a brontolare il prete «Dio preferisce noi di certo! Meglio dei porci come noi, dopo tutto, avidi, turpi, mentitori, piuttosto che quei primi della classe che mai gli rivolgon la parola. Che soddisfazione può avere Dio da gente simile? E che significa la vita se non c’è il male, e il rimorso, e il pianto?» Per la gioia, imbracciò lo schioppo, mirò al disco volante che era ormai un puntolino pallido in mezzo al firmamento, lasciò partire un colpo. E dai remoti colli rispose l’ululio dei cani.

Dino Buzzati

venerdì 8 febbraio 2013

profeta in patria



Lc 4, 16-30

Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Come già notato, una dichiarazione strabiliante, per un ebreo. Se la Scrittura si è compiuta l’attesa del Messia è finita, e il Messia è arrivato. Ma cosa si intende per ‘Messia’? In realtà nella storia del popolo di Israele questo termine ha avuto diverse connotazioni, in  parte dovute anche alla situazione storico-politica che nei diversi periodi Israele stava vivendo. Inoltre il Messia era atteso perchè promesso da Dio, ma le promesse con comprendevano una descrizione che permettesse di individuarlo in base a delle caratteristiche precise. Per molto tempo il Messia è stato visto come una figura regale, legata alla discendenza di Davide, ma dopo l’esilio e la distruzione della famiglia davidica questa figura ha perso significato, e di volta in volta è stata vista come una figura profetica, o sacerdotale, o di liberatore. La cosa curiosa è che diversi gruppi o correnti all’interno dell’ebraismo sostenevano ciascuno una di queste interpretazioni della figura messianica, ma nessuno, fino al nuovo testamento, aveva mai pensato a una figura che riassumesse in sé tutti questi titoli.
Questo forse può spiegare la diversa accoglienza fatta a Gesù da parte di chi non vedeva in lui il tipo di Messia che aveva in mente.
In realtà pare che Gesù li abbia scontentati tutti, perché se è possibile vedere in lui ciascuna delle caratteristiche messianiche che abbiamo delineato, è anche vero che Gesù le supera tutte e si pone su un livello assolutamente impensabile nel mondo ebraico. Infatti tutte le caratteristiche del Messia fino ad allora hanno comunque in comune l’essere riferite a un uomo. Inviato da Dio, mandato da Dio, incaricato da Dio, ma pur sempre una figura umana. Gesù esce da questa visione delle cose, scardina tutte le attese messianiche e le ripresenta in se stesso, come figura molto diversa da quello che ci si aspettava. Lo si vede bene nella prosecuzione degli eventi della sua vita e nelle cose che dice: è un Messia diverso dalle attese, che insiste a presentarsi con una familiarità e una condivisione di identità con Dio che arriva a scandalizzare, e nello stesso tempo con connotati che non erano mai stati presi in considerazione nella figura del Messia, in particolare la debolezza e la sofferenza.
In qualunque modo si intendesse in Israele la figura del Messia, era sempre una figura potente, liberante, vittoriosa. Gesù non è nulla di tutto questo, o quantomeno non lo è a livello sociale e politico. Il suo intervento è sempre personale, anche quando ha a che fare con le folle. E il suo ‘potere’ è sempre rivolto contro il ‘male’, non tanto contro le istituzioni, per quanto oppressive. Tant'è vero che quasi mai si scontra con i dominatori romani (come avrebbero voluto anche alcuni dei suoi discepoli) mentre spesso si scontra con le autorità religiose, quando ritiene che non siano fedeli alla rivelazione divina che pure hanno il compito di rappresentare. Il male Gesù lo vede quindi più nella disobbedienza alla legge di Dio che nella violenza delle azioni della legge umana.


Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso.

Gesù da parte sua non è che si preoccupa molto di spiegare, di chiarire, di mettere in luce il proprio modo di essere Messia. Anzi, non spiega niente e va dritto per la sua strada, che piaccia o no a chi lo incontra. Non solo, ma in alcune situazioni, come questa, si comporta in modo addirittura indisponente e antipatico.
Ha scelto di andare a Nazaret, paese in cui ha vissuto una trentina d’anni in modo assai anonimo, e dove tutti lo conoscono. E lì, di punto in bianco, un sabato in sinagoga, si presenta come colui che compie la Scrittura. Credo che sia comprensibile che i suoi compaesani siano rimasti spiazzati e sorpresi da queste sue parole.

Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”».

Per inciso è da notare questa curiosa citazione. Nel vangelo di Luca quelle di Nazaret sono le prime parole ‘ufficiali’ di Gesù. I capitoli precedenti hanno raccontato della sua nascita e poi del suo battesimo e dei quaranta giorni nel deserto. In base al racconto non c’è stato nessun avvenimento a Cafarnao. Questo particolare, insieme a molti altri, ci induce a pensare che Luca, come anche gli altri evangelisti, non abbia voluto fare un racconto cronologico e puramente cronachistico della vita di Gesù, ma che abbia sistemato e selezionato i vari eventi secondo uno schema teologico e pastorale che aveva in mente. Per cui, come Giovanni situa a Cana il ‘primo dei segni’, Luca tralascia altri episodi e preferisce mettere il ‘primo degli annunci’ a Nazaret, paese in cui Gesù ha vissuto per anni. Credo che il messaggio teologico sia quello di voler avvertire i lettori di fare attenzione a non considerarsi troppo conoscitori di Gesù. Gesù non lo si può inscatolare troppo nelle nostre categorie, pericolo che corrono in particolare i 'suoi', quelli che credono di conoscerlo meglio. Gesù è sempre ‘oltre’, sempre fuori dei nostri schemi.

Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».

Dicevo dell’antipatia di Gesù. Quando si mette è proprio indisponente. I suoi compaesani sono meravigliati e stupiti, ma è comprensibile, considerando che è stato lui stesso a voler vivere anonimamente tra di loro per trent’anni. ‘Non è il figlio di Giuseppe?’. La domanda è più che legittima. Non viene citato alcun altro atteggiamento o parola ostile, eppure Gesù fa tutto lui. Mette loro in bocca le parole: ‘mi citerete il proverbio…’, mi direte ‘quello che accadde a Cafarnao…’. Rincara la dose citando Elia mandato a una straniera e uno straniero guarito da Eliseo.

All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù.


Credo che si possa intravedere in questo episodio, oltre all’eco di una effettiva perplessità e magari anche ostilità dei compaesani di Gesù (giustificata però dal fatto che Gesù, come abbiamo visto, non fa nulla per mitigare le sue affermazioni) alle parole di uno che si assume il titolo di Messia, in filigrana una prima immagine che Luca ci vuole lasciare di come andrà a finire la vita di Gesù: cacciato fuori della città.

Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Anche l’ultima frase di questo episodio è non solo un resoconto di quello che è successo, ma del senso generale di quello che Gesù sta facendo: non è ancora giunta ‘la sua ora’, e Gesù deve ancora cominciare il suo cammino, quindi non è il momento della sua fine. Siamo solo all’inizio. La frase richiama anche il cammino del popolo di Israele guidato da Mosè: passa in mezzo al mar Rosso e cammina verso la terra promessa.


mercoledì 6 febbraio 2013

Berlicche 17


Mio caro Malacoda,
la maniera sprezzante con la quale nella tua ultima lettera hai parlato della gola come di un mezzo per accalappiare le anime dimostra soltanto la tua ignoranza. Una delle grandi conquiste degli ultimi cento anni è stata quella di ottundere la coscienza umana su quell’argomento, tanto che ora ti sarà difficilissimo sentire una predica su questo tema o trovare una coscienza che ne sia turbata in tutta l’Europa presa in lungo e in largo. È stato in gran parte l’effetto di aver noi concentrato tutti gli sforzi sulla golosità di Delicatezza, e non sulla golosità di Eccesso. La madre del tuo paziente, come ho appreso dall’incartamento, e come tu puoi aver saputo da Farfarello, ne è un esempio eccellente. Essa si meraviglierebbe (e un giorno, spero, si meraviglierà) di venire a sapere che tutta la sua vita è trascorsa sotto la schiavitù di questo genere di sensualità, che le è completamente celato dal fatto che le quantità coinvolte sono piccole. Ma che cosa importa la quantità, se riusciamo a usare della pancia di un uomo e del suo palato per produrre litigi, impazienza, mancanza di carità e preoccupazione per il proprio io? Farfarello tiene ben salda questa donna nella sua mano. Essa è un vero terrore per gli ospiti e per i domestici. Ogni volta che le viene posto innanzi qualcosa esce a dire, con un dimesso sospiretto, e con un sorriso: “Oh, grazie, grazie… io desidero solamente una tazza di tè, debole ma non troppo debole, e un pezzettino di crostino abbrustolito ben croccante”. Vedi? Poiché ciò che vuole è più piccolo e meno costoso di ciò che le è stato messo davanti, non riconoscerà mai come golosità la sua determinazione di avere ciò che vuole, benchè possa recare grande disturbo agli altri. Nel momento stesso che cede al sua appetito crede di mettere in pratica la temperanza. In un ristorante pieno di folla esce in un piccolo strillo sul piatto che la cameriera, stanchissima dal lavoro, le ha presentato, e dice: “Oh, e troppo, troppo! Portatelo via e datemene solo un quarto”. Se le si fanno rimostranze, dice che è per non far consumare la roba. In realtà lo fa perché quella speciale ombra di delicatezza della quale l’abbiamo resa schiava si sente offesa alla vista di un cibo di quantità maggiore di quanto in quel momento desiderava.
Il valore positivo del lavoro silenzioso e delicato che Farfarello sta facendo da anni su questa vecchia signora può venire misurato dal modo con il quale il suo stomaco domina ora tutta intera la sua vita. Quella donna è nello stato mentale che noi chiamiamo del ‘desiderio solamente’. Essa desidera solamente una tazza di tè preparata come si deve, o un uovo bollito come si deve, oppure una fetta di pane abbrustolita come si deve. Ma non si trova mai una domestica o un’amica che sia capace di fare quelle semplici cose ‘come si deve’, poiché il suo ‘come si deve’ nasconde una insaziabile richiesta degli esatti, dei quasi impossibili piaceri del palato che essa immagina di ricordare dal passato; un passato che descrive come ‘i giorni nei quali si potevano avere buone domestiche’, ma che noi sappiamo essere i giorni nei quali i suoi sensi si accontentavano con più facilità, ed ella aveva piaceri di altro genere, che la rendevano meno soggetta a quelli della tavola. Intanto, il disappunto giornaliero produce ogni giorno cattivo sangue: le cuoche se ne vanno e le amiche si raffreddano. Se mai il Nemico le mette in tesa il debole sospetto che si interessa troppo al cibo, Farfarello contrattacca suggerendole che non le interessa ciò che mangia lei stessa, ma che ‘le piace che le cose siano fatte bene per il suo ragazzo’. Di fatto, naturalmente, la sua golosità è da molti anni la fonte principale del disagio che egli prova in casa.
Ora, il tuo paziente è figlio di sua madre. Pur lavorando indefessamente, con perfetta ragione, sugli altri fronti, non devi trascurare una piccola infiltrazione silenziosa nel campo della gola. Essendo uomo non è facile che si lasci prendere dalla trappola mimetizzata del ‘desidero solamente’. I maschi si fanno diventare ghiottoni con l’ausilio della loro vanità. Bisognerebbe ottenere che si credano grandi intenditori in fatto di cibi, che diano a intendere che hanno scoperto l’unico ristorante della città nel quale le braciole sono fatte veramente ‘come si deve’. Ciò che comincia come vanità può essere trasformato poco a poco in abitudine. Ma, da qualsiasi lato lo si prenda, l’importante è di fargli raggiungere quello stato nel quale il rifiuto di un qualsiasi suo desiderio (non importa quale, champagne o tè, Sole Colbert o sigarette) lo fa uscire dai gangheri, perché in tal caso la sua carità, la sua giustizia e la sua obbedienza sono tutte in tua balìa.

Tuo affezionatissimo zio

Berlicche