mercoledì 30 maggio 2012

Berlicche 15


Mio caro Malacoda,
avevo notato, naturalmente, che gli esseri umani avevano avuto un periodo di stasi nella loro guerra europea (in quella che con molto candore chiamano La Guerra!) e non mi sorprende che vi sia una stasi corrispondente nelle preoccupazioni del paziente. Dobbiamo incoraggiarlo in ciò, oppure mantenerlo continuamente sottosopra? Tanto una paura torturante quanto una sciocca confidenza sono posizioni mentali da desiderare. La scelta che dobbiamo fare tra i due dà luogo a importanti problemi.
Gli esseri umani vivono nel tempo, ma il nostro Nemico li destina all’eternità. Perciò, credo, egli desidera che essi si occupino principalmente di due cose: dell’eternità stessa e di quel punto del tempo che essi chiamano il presente. Il presente è infatti il punto nel quale il tempo tocca l’eternità. Del momento presente, e soltanto di esso, gli esseri umani hanno un’esperienza analoga all’esperienza che il nostro Nemico ha della realtà intera, soltanto in esso viene loro offerta la libertà e la realtà. Egli vorrebbe perciò che essi fossero continuamente occupati o con l’eternità (il che vuol dire essere occupati di lui) o con il presente, o che meditino sulla loro unione eterna con lui, o sulla separazione da lui, oppure che obbediscano alla voce presente della coscienza, portando la croce presente, ricevendo la grazia presente, offrendo azioni di grazie per il piacere presente.
Il nostro lavoro è di allontanarli sia dall’eterno, sia dal presente. A questo fine talvolta tentiamo un essere umano (una vedova, ad esempio, o uno studioso) a vivere nel passato. Ma ciò vale soltanto limitatamente, poiché essi hanno una conoscenza determinata del passato e il passato ha una natura determinata, e sotto questo aspetto assomiglia all’eternità. È molto meglio farli vivere nel futuro. Le necessità biologiche vi dirigono già tutte le loro passioni, cosicché il pensiero del futuro infiamma la speranza e il timore. Inoltre esso è sconosciuto, e quindi facendoli pensare ad esso li facciamo pensare a cose irreali. Insomma, il futuro è, tra tutte, la cosa meno simile all’eternità. È la parte più compiutamente temporale del tempo, poiché il passato è ghiacciato e non scorre più, e il presente è tutto illuminato dai raggi dell’eternità. Da cui l’incoraggiamento che noi abbiamo dato a tutti quegli schemi di pensiero come l’evoluzione creatrice, l’umanesimo scientifico o il comunismo, che fissano l’affetto dell’uomo nel futuro, nel centro stesso della temporalità. Quasi tutti i vizi sono radicati nel futuro. La gratitudine riguarda il passato e l’amore al presente. Il timore, l’avarizia, la lussuria e l’ambizione guardano avanti. Non pensare che la lussuria sia un’eccezione. Quando il piacere presente arriva, il peccato (che è la sola cosa che ci interessa) è già finito. Il piacere è appunto la parte del processo che ci dispiace e che escluderemmo, se lo potessimo fare senza perdere il peccato. È la parte che viene offerta dal Nemico, e quindi sperimentata nel presente. Il peccato, che rappresenta il nostro contributo, guarda avanti.
Si sa, anche il nemico vuole che gli uomini pensino al futuro, ma solo quel tanto che è necessario per stabilire ora i piani e gli atti di giustizia e di carità che forse saranno il loro dovere domani. Il dovere di stabilire i piani del lavoro di domani è un dovere di oggi. Benché il suo materiale sia preso a prestito dal futuro, il dovere, come ogni dovere, è nel presente. Questo non è spaccare un capello in quattro. Egli non vuole che gli uomini diano il loro cuore al futuro, che ripongano in esso il loro tesoro. Noi sì. Il suo ideale è un uomo che, avendo lavorato tutto il giorno per il bene della posterità (se tale è la sua vocazione), si libera la mente da ogni pensiero di quel lavoro, lascia le conseguenze al Cielo, e ritorna senza indugio alla pazienza e alla gratitudine che il momento che passa su di lui gli richiede. Noi invece vogliamo un uomo che sia stregato dal futuro, invasato da visioni di un cielo o di un inferno imminenti sulla terra, pronto a rompere i comandi del Nemico nel presente, se così facendo lo facciamo pensare che sarà in grado di raggiungere il primo o di schivare il secondo, dipendente per la sua fede dal successo o dal fallimento di schemi dei quali non vivrà fino a vedere la fine. Noi vogliamo tutta una razza che persegua perpetuamente la fine dell’arcobaleno, mai onesta, mai gentile, né felice ora, ma che usi continuamente come pura esca da collocare sull’altare del futuro ogni vero dono che le viene offerto nel presente. Ne segue dunque, in generale, e a parità di ogni altra cosa, che è meglio per il tuo paziente essere pieno di ansietà e di speranza (non importa quale) intorno a questa guerra, che non vivere nel presente. Ma la frase ‘vivere nel presente’ è equivoca. Può essere usata per descrivere un processo che in realtà si può occupare del futuro come l’ansietà stessa. Il tuo uomo può essere indifferente intorno al futuro, non perché si occupa del presente, ma perché è giunto alla convinzione che il futuro sarà piacevole. Se la sua tranquillità seguirà questa linea, tale sua tranquillità ci sarà utile, perché non farà altro che accumulare sempre maggior disappunto, e quindi maggiore impazienza, per lui, quando le sue false speranze saranno svanite. Se, d’altra parte, egli è consapevole che gli possono essere riservati degli orrori, e prega per ottenere le virtù con le quali affrontarli, occupandosi nel frattempo del presente, perché là e soltanto là si trovano tutto il dovere, tutta la grazia, tutta la conoscenza e tutto il piacere, il suo stato è indesiderabile e dovrebbe essere attaccato senza indugio. Anche qui il nostro ramo filologico ha fatto un buon lavoro. Tenta la parola ‘compiacimento’ con lui. Ma naturalmente è probabilissimo che egli stia ‘vivendo nel presente’ per nessuna di queste ragioni, ma semplicemente perché la sua salute è buona ed egli sta godendo del suo lavoro. In questo caso il fenomeno sarebbe unicamente naturale. Ma io lo troncherei lo stesso, se fossi in te. Nessun fenomeno naturale è in realtà in nostro favore. E del resto, perché mai la creatura dovrebbe essere felice?

Tuo affezionatissimo zio

Berlicche

domenica 20 maggio 2012

Ascensione

Naso in su, piedi in giù

Durante l'Ascensione, Gesù gettò un'occhiata verso la terra che stava piombando nell'oscurità. Soltanto alcune piccole luci brillavano timidamente sulla città di Gerusalemme. L'arcangelo Gabriele, che era venuto ad accogliere Gesù, gli domandò: "Signore, che cosa sono quelle piccole luci?". "Sono i miei discepoli in preghiera, radunati intorno a mia madre. E il mio piano, appena rientrato in cielo, è di inviare loro il mio Spirito, perché quelle fiaccole tremolanti diventino un incendio sempre più vivo che infiammi, poco a poco, tutti i popoli della terra!". L'Arcangelo Gabriele osò replicare: "E che farai, Signore, se questo piano non riesce?". Dopo un istante di silenzio, il Signore gli rispose dolcemente: "Ma io non ho un altro piano".
 
Vissuta quaggiù, tra orti e case che si rimpiccioliscono, questi frammenti di tempo sono infinitamente tristi, questo giorno chiamato nei calendari Ascensione in verità per noi è la fine di un lungo Natale, tra queste nuvole misteriose si dissolve la magia e lo splendore di quella notte vissuta tra le colline di Betlemme. Perché se presepio significa "fare siepe", muri, stelline e spiagge di muschio attorno a quel Bambino per imprigionarlo in una festa che richiama la nostra infanzia, con l'allegria dei nostri ricordi raccontati attorno ad un camino acceso, oggi ci pensi e ti chiedi: "dove sono, a cosa sono serviti tutti quei presepi?" Quel Bambino, diventato grande, è scappato.
Il presepio e la croce. Guarda che assurdità: quest'ora sembra essere più triste addirittura dell'ora della morte. Perché almeno la croce lasciava un cadavere da imbalsamare di lacrime e di unguenti, da visitare con fiori e lanterne. Illogico l'uomo, se veramente un sepolcro in terra può dare maggior conforto che un punto irraggiungibile in cielo che ti parla di speranza. Ma se d'un balzo quest'Uomo abbandona la terra nel pieno della sua giovinezza e della sua eclatante vittoria, nel sole delle sue amicizie e delle sue cene è solo per gridarci che anche noi qui non abbiamo la residenza eterna. 
Lasciando Betania e lo sguardo dell'amico Lazzaro, il silenzio del deserto e la confusione di Gerusalemme, insegna anche a noi a lasciare le nostre case senza voltarci indietro. A sollevare in alto il nostro capo. Ma che difficile capire. Noi, armati di cultura e di letteratura, capiamo solo che era tra noi e adesso non c'è più, che potevamo toccarlo e adesso sulla terra non rimane che l'impronta di quei piedi che uno sprazzo di vento presto cancellerà. Inutile nasconderlo: avremmo preferito un Dio che restasse imprigionato dentro le nostre zolle, magari anche un Dio di pietra come i vecchi idoli pagani, a cui tingere la fronte, ballare attorno, imprecare, sognare, ripartire.

Salvador Dalì, Ascensione di Cristo, 1958

Il difficile del nostro vivere comincia da questo momento. Quello sperone di monte sembra una scogliera di naufraghi abbandonati, con le barbe protese verso l'alto, i ciuffi neri e le teste calve che scolorano come un mucchio di marionette a spettacolo finito, il cuore turbato in un assurdo rimorso. Senza più quel Maestro geniale e imprevedibile noi vorremmo fermarci lassù migliaia di anni perché ci è stato detto che verrà precisamente alla stessa maniera. Ma non sarà possibile. Non lo è stato nemmeno per i discepoli: hanno dovuto obbedire, sono stati costretti a scendere assieme agli altri, per non dare al Maestro l'ennesima impressione di non aver capito nulla: "Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?". Attenzione: perché da quell'istante potrebbe nascondersi dietro un cespuglio, nel tronco cavo di un albero, in uno stagno di Galilea. Egli torna al Padre, ma quel Padre non abita oltre il volo degli uccelli. Egli è nelle brughiere spazzate dal vento, nei fienili sconosciuti divenuti locande improvvisate, sui crinali delle montagne, sotto il letto o sui tetti della città. 
Sai cosa significa? Che la storia non è un mazzo di inutili sussulti. Che quelli che stiamo percorrendo non sono sentieri interrotti. Che la nostra vita non è sospesa sul vuoto. Che quel Dio che senti tremendamente lontano si è fatto inquilino di quell'appartamento privatissimo che si chiama "persona umana". Sicché il suo indirizzo provvisorio porta i connotati di ciascuno di noi. Di me, don Marco. Di te, Andrea, fratello fortunato. Di Angela, la tua splendida donna. Di Paolo, tuo amico per la pelle. E chi vuol adorarlo non lo deve cercare nei quartieri residenziali del cielo, ma negli occhi della gente. Di Carmelo, il pescatore. Di Bernardo, l'assassino. Di Giulio, il politico. Di Antonio, il vescovo. Di Luigi, che ha smarrito la ragione.
Pensa che bello: nulla sarà più straniero. Ogni terra dove poggeremo il piede la riconosceremo per una segreta memoria perché Lui l'avrà abitata. Ogni paese che lasceremo non lo abbandoneremo del tutto perché lasciamo Lui. Tutto lo spazio avrà il sapore di casa nostra, il profumo delle nostre radici. Non ci saranno più lontananze perché Lui si è messo in viaggio per il mondo.
Allora capiremo che questo è stato tutto un gioco per farci innamorare ancor di più di quell'Uomo. Allora capiremo che ha fatto finta d'andarsene.
Lo capiremo da questo: non avremo più paura. 

 don Marco Pozza
 

venerdì 18 maggio 2012

Berlicche 14


Mio caro Malacoda,
la notizia più allarmante del tuo ultimo resoconto del paziente è che egli non ha nessuna di quelle risoluzioni piene di confidenza che segnarono la sia primitiva conversione. Non fa, mi pare, larghe promesse di virtù perpetua; neppure si aspetta una dotazione di grazia per tutta la vita, ma spera unicamente in una razione giornaliera e di ogni ora per andare incontro alla tentazione di ogni giorno e di ogni ora. 
Molto male! Secondo me, per il momento, c’è solo una cosa da fare. Il tuo paziente è diventato umile: glielo hai fatto notare? Tutte le virtù sono per noi meno pericolose una volta che l’uomo è consapevole di possederle, ma ciò è vero in particolare per l’umiltà. Sorprendilo nel momento che ha lo spirito veramente depresso, e contrabbanda nella sua mente la riflessione consolante “per Giove, ma io sono umile!”, e quasi immediatamente l’orgoglio (l’orgoglio della sua stessa umiltà) farà la sua apparizione. Se di accorge del pericolo e tenta di soffocare questa nuova forma di orgoglio, fallo inorgoglire del suo tentativo, e così di seguito, per tutte le fasi che vorrai. Ma non tentare ciò per lungo tempo, perché c’è pericolo di svegliare in lui il senso dell’umorismo e della proporzione. Nel qual caso ti riderà in faccia e andrà a dormire. 
Ma vi sono altri modi utili per fissargli l’attenzione sulla virtù dell’umiltà. Per mezzo di questa virtù il nostro Nemico vuol stornare l’attenzione dell’uomo dal proprio io per volgerla verso di sé e verso il prossimo. Tutta l’abiezione di sé e l’odio di sé vengono diretti, in fin dei conti, a questo scopo. E, fin quando non lo raggiungono, ci possono recare poco danno. Possono perfino esserci utili, se tengono l’uomo preoccupato di sé e, soprattutto, se il disprezzo per la propria persona può venir preso come punto di partenza per il disprezzo della persona degli altri, e di conseguenza per la musoneria, il cinismo e la crudeltà. 
Bisogna perciò che tu nasconda al paziente il vero scopo dell’umiltà. Non deve ritenerla dimenticanza di sé, ma una certa opinione (cioè una bassa opinione) dei suoi talenti e del suo carattere. Mi pare che alcuni talenti li abbia davvero. Piantagli in mente l’idea che l’umiltà consiste nello sforzarsi di credere che quei talenti valgono meno di quanto egli crede che valgano. Senza dubbio è vero che di fatto valgono meno di quanto crede, ma questo non ha importanza. Ha invece importanza fargli valutare un’opinione per un aspetto diverso della verità, introducendo in tal modo un elemento di disonestà e di pretesa nel cuore di ciò che minaccia di diventare una virtù. Con questo metodo migliaia di uomini sono stati indotti a pensare che l’umiltà significa donne carine che si sforzano di credersi brutte e uomini intelligenti che si sforzano di credersi sciocchi. E poichè quanto si sforzano di credere può essere, in qualche caso, una lampante assurdità, essi non possono riuscire a crederlo e noi abbiamo l’occasione di far girare loro la mente in un continuo girare su se stessa nello sforzo di raggiungere l’impossibile. Al fine di prevenire la strategia del Nemico dobbiamo considerare i suoi scopi. Ciò che il Nemico vuole è di portare l’uomo a uno stato mentale nel quale egli possa concepire la miglior cattedrale del mondo, e sapere che si tratta della migliore, e goderne, senza essere più (o meno) o altrimenti contento di averla fatta lui, che se fosse stata fatta da un altro. 
Il Nemico vuole che, alla fine, egli sia libero da ogni pregiudizio in suo favore, talmente libero da saper godere dei suoi propri talenti con la stessa franchezza e la stesa gratitudine che dei talenti del suo prossimo e della levata del sole, o di un elefante, o di una cascata. Vuole che, in fin dei conti, ogni uomo sia in grado di riconoscere tutte le creature (perfino se stesso) come cose gloriose ed eccellenti. Vuole distruggere al più presto il loro amor proprio naturale. Ma la sua lungimirante politica consiste nel fatto, temo, di ridonare loro un nuovo genere di amor proprio, una carità e una gratitudine per tutte le persone, compresa la propria. Quando avranno davvero imparato ad amare il prossimo come se stessi, sarà loro permesso di amare se stessi come il prossimo. 
Non dobbiamo mai dimenticare ciò che è il tratto repellente e inesplicabile del nostro Nemico: egli ama veramente quei bipedi spelati che ha creato e sempre restituisce con la destra ciò che ha tolto con la sinistra. 
Tutto il tuo sforzo consisterà dunque nel tener la mente dell’uomo lontana dall’argomento del suo valore. Egli preferisce che l’uomo si creda un grande architetto e un grande poeta e poi se ne dimentichi, anziché spendere molto tempo e molta fatica nello sforzarsi di essere un architetto o un poeta da nulla. I tuoi sforzi di instillare la vanagloria o la falsa modestia nel paziente saranno attaccati da parte del Nemico con il naturale suggerimento che, di solito, non si esige che un uomo abbia un’opinione dei suoi talenti, dal momento che può benissimo continuare a migliorarli al massimo senza decidere in quale precisa nicchia del tempio della Fama si trovi. 
Tu devi fare ogni sforzo per allontanare un tale suggerimento dalla consapevolezza del paziente. Il Nemico si sforzerà pure di rendere reale nella mente del paziente una dottrina che tutti gli uomini professano ma che riesce loro difficile conciliare con i sentimenti: la dottrina che essi non hanno creato se stessi, che i talenti sono stati dati loro, e che tanto varrebbe essere orgogliosi del colore dei capelli. Ma scopo del Nemico sarà sempre e con tutti i mezzi di tener la mente del paziente lontana da problemi del genere, e tuo scopo sarà di fissarvela in essi. 
Il Nemico non vuole neppure che pensi troppo ai suoi peccati. Una volta che se ne sia pentito, più presto volgerà l’attenzione al di fuori, e più compiaciuto sarà il Nemico.

Tuo affezionatissimo zio

Berlicche